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IL VIAGGIO “Gaeta è caduta”, inizia la festa Così Torino si svegliò italiana

9 Mar

Tra cronache minime e grande storia il racconto dei giorni straordinari in cui si fece l’Italia – “Soldati! Gaeta è caduta!”. È il 20 febbraio 1861: i tricolori sventolano in città, le luminarie si accendono e nelle strade non si parla più il dialetto. Il nostro inviato nel Risorgimento rilegge i giornali dell’epoca e, tra piccola e grande storia, racconta i giorni incredibili che porteranno all’Unità del Regno

di NELLO AJELLO

Il 17 febbraio 1861 fu letteralmente rasa al suolo Mola di Gaeta, a colpi di cannone. Poi, dopo l’unità d’Italia, con Cialdini nominato luogotenente dell’ex Regno delle Due Sicilie e, sotto il suo comando supremo, i bersaglieri ebbero mano libera nel vendicare un gruppo di loro commilitoni. Per l’esattezza, quarantacinque soldati che furono trucidati da briganti e contadini. Gli insorgenti meridionali si abbandonarono a raccapricciante crudeltà: il corpo del tenente Augusto Bracci fu decapitato e la testa fu portata in trionfo. http://www.graffitiweb.it/2011/02/21/

È il 20 febbraio 1861 e da due giorni Torino festeggia. C’ è una luce diversa in città. Straordinarie luminarie accendono piazza Carignano, via dell’Accademia delle Scienze, via Po, e soprattutto piazza Castello, regina della decorazione urbana particolarmente curata dal signor Ottino regista della scenografia. Appare più imponente del solito, fra il gran luccichio che gli dà risalto e i fuochi d’ artificio che ne fanno balenare ogni angolo, lo scenario della Gran Madre. Molti conoscono, sia pure solo di nome, l’artista-pirotecnico che ha preparato lo spettacolo: si chiama Ardenti. Presenzia a queste scene, rallegrate da molte musiche, un gruppo di Altezze Reali. Comprende il principe Umberto di Piemonte, Amedeo Duca d’ Aosta, madama Maria Pia: un trio di teste coronate.Sventolano in tutta Torino i tricolori che già annunciano l’Italia risorta. Più per una mutua convenzione che per un impulso patriottico di circostanza, il dialetto piemontese sembra risuonare, nelle strade, meno insistente del solito. Si parla di più in italiano. La musica della Guardia Nazionale di Torino, diretta dal maestro Demarchi, con i suoi cento coristi si fa applaudire in piazza Castello da una grande folla. Le tre Altezze Reali partecipano alla gioia popolare prima da un balcone del Palazzo del Ministero degli Affari Esteri, poi tra la folla in carrozze scoperte.

Dovrebbe esserci anche la Duchessa di Genova, ma non ha potuto, per indisposizione. “Sventola la croce di Savoia”. È così che Torino, cuore dell’Italia che sta nascendo, celebra una notizia cruciale che arriva dal sud: la capitolazione di Gaeta, ultimo caposaldo del regno borbonico. “Soldati! Gaeta è caduta! Il vessillo italiano e la vittrice croce di Savoia sventolano sulla torre d’ Orlando.
Quanto io presagiva, voi compieste il 13 del corrente mese. Chi comanda soldati quali voi siete, può farsi sicuramente profeta di vittorie. Voi riduceste in 90 giorni una piazza celebre per sostenuti assedii ed accresciute difese. La storia dirà le fatiche e i disagi che patiste, l’abnegazione, la costanza ed il valore che dimostraste. Il Re e la Patria applaudono il vostro trionfo, il Re e la Patria vi ringraziano”.

Così comincia il messaggio con il quale il generale Enrico Cialdini, comandante in capo dell’esercito italiano, annuncia la vittoria: il regno delle Due Sicilie ormai non c’ è più, rimangono
solo da conquistare la cittadella di Messina e la fortezza di Civitella del Tronto che disperatamente resistono. La vittoria è a un passo: ai soldati che hanno partecipato all’impresa il generale concede due mesi di congedo, dopodiché “potranno essere richiamati alle armi”. Non si sa mai.

Le polemiche sui giornali. L’annunzio da Gaetaè solo la conferma di voci che passano di bocca
in bocca. Torino sapeva già. E non tutti – è ovvio – esultano. Proprio qui viene sequestrato un foglio clericale intitolato Il Campanile, che della resa di Gaeta fornisce una descrizione a suo dire fedele, con epiteti molto severi rivolti ai vincitori, quasi fossero autentici sanguinari. Vi si citano, come una sopraffazione inferta ai vinti, certi brani del “comunicato di capitolazione”, stipulato fra il comandante delle truppe di re Vittorio e il governatore della fortezza cara a Francesco II. Le frasi che richiamano il biasimo del foglio confessionale sono quelle in cui si stabilisce che, dopo la firma della capitolazione “non deve restare nella Piazza gaetana nessuna mina carica” e si preannunzia che “se si trovassero distrutte a bella posta armi appartenenti all’esercito di Sua Maestà Vittorio Emanuele”, i responsabili “sarebbero immediatamente fucilati”. Sarà pure duro ma è indispensabile capire che una capitolazione non è uno scherzo. Ma non sono solo i clericali a stare all’opposizione. C’ è anche chi nutre dubbi su casa Savoia: il re sarà all’altezza del compito
che l’aspetta? Il Giornale di Verona, critica il monarca sabaudo per il fatto di trovarsi alla Scala di Milano in pieno veglione di Carnevale quando viene raggiunto dal dispaccio sulla grande vittoria di Gaeta. “Immaginatevi”, così scrive il quotidiano veneto, “la confusione ed il fracasso”. La polemica si accende. Il Monitore toscano gli replica sprezzante: “Ci si domanda se la confusione non fosse piuttosto a Verona”. Il conflitto inter-italiano straripa nella stampa.

E ora tocca a Roma. Vittorio Emanuele viene descritto come fosse circondato da un’aurea di
affabilità cordiale, quasi si trattasse di un amabile “bonhomme” assiso sul trono. C’ è chi racconta di un’avventura da lui vissuta a Milano. Sua Maestà rasenta in carrozza il ponte di Porta Venezia, quando il cavallo d’ un lanciere, spaventato dagli osanna della folla, s’ impenna, scalcia e manda in frantumi un fanale della vettura. Nel trambusto due donne cadono a terra malconce. Balzato giù dal veicolo, il sovrano rialza e rincuora le popolane, sue suddite nuove di zecca. L’aneddoto, oltre che ammirativo, è edificante. Più secche le notizie che filtrano dall’entourage di Camillo Benso di Cavour. Si cita di un messaggio che il Conte ha inviato al barone Bettino Ricasoli, a Firenze: “Dopo Gaeta”, vi si legge, “Roma deve essere la prima stagione verso la quale rivolgere i nostri passi”. Nel riferire questo proposito cavouriano, il periodico Italia e Roma, ardentemente unitario e
anti-vaticano, ricorda come esso sia in linea con il programma espresso con insolito calore emozionale dallo stesso conte-presidente l’11 ottobre dell’anno scorso, il 1860: “Noi vogliamo fare della Città Eterna, in cui 25 secoli deposero i loro monumenti di gloria, la splendida Capitale del nuovo Regno Italiano”.

Gaeta è caduta, ma il Piemonte – avanguardia d’ Italia – è ancora in guerra. Nelle strade, nelle case, negli uffici, il conflitto oscilla fra le imperative ragioni della scienza militare e la vita quotidiana, con i suoi corollari insopprimibili. Mentre sul Giornale militare ufficiale si discute dei vantaggi strategicamente decisivi introdotti dall’adozione della più aggiornata “artiglieria rigata” in luogo di quella “liscia” di stampo tradizionale, ecco campeggiare, nella Gazzetta Ufficiale del Regno, una réclame, nella quale si dà notizia dell’apertura delle procedure d’ appalto per la fornitura alle Forze armate di un’adeguata “provvista di funicelle, spago, cordame e nastri di filo, ascendente nel complesso a lire 21,50”. Gli “aspiranti all’impresa” potranno presentarsi nella Sala degli Incanti presso il Ministero della Guerra, depositando “biglietti della Banca Nazionale o titoli del Debito Pubblico per un valore pari a un decimo dell’ammontare dell’impresa”.

“Mio marito? E’ scemo di mente. Si combatte aspramente fra italiani sul confine tra Stato e Stato, ma non cessano, in ogni comunità, all’interno degli alloggi e sul ciglio di pianerottoli e parapetti, assedi, sortite e scontri animosi. Ecco ad esempio che un quotidiano pubblica una lettera così concepita: “La sottoscritta Ricca Gioanna, nata Bellardi, in rettifica all’avviso da voi inserito
il 4 febbraio corrente a pagina tre, rende noto che il di lei marito, Ricca Martino, di Ivrea, da cui trovasi essa da oltre tre anni legalmente separata di talamo e d’ abitazione, è scemo di mente ed affatto decotto. Perciò la medesima dichiara che non intende assumere in sé obbligazioni per i debiti o contratti di qualsiasi natura, riguardanti il suddetto Ricca”. C’ è, insomma, un’eterna vita domestica a tal punto abbagliata dalle proprie pulsioni quotidiane da affiancarsi, e a volte sovrapporsi alla storia con l’iniziale maiuscola che si va compiendo. Non si sa se
ciò sia un paradosso o una risorsa.

IL RE IN MEZZO AI SALAMI Sul settimanale di Firenze, L’Arlecchino, si racconta che tale Lapo
Baldassarre, pizzicagnolo con negozio in via dei Calzaioli, ha collocato un busto in gesso di Re Vittorio Emanuele su uno scaffale al centro di una mostra di salami. “La scena rappresenta”, ha dichiarato, “il Sovrano in mezzo ai sudditi”. La satira politica, nell’Italia che sta per nascere, è anche lei in fasce. Crescerà. Cos’ altro potrebbe fare?
(1 – continua)

(08 marzo 2011)

http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/03/08/news/torino_italiana-13336806/index.html?ref=search